L’idea del gatto come compagno di vita, mi era venuta dopo aver perso anche l’ultimo scampolo di fiducia nei confronti del genere umano.
Mi ero gettata alle spalle ben quattro matrimoni, tutti senza aver messo al mondo nemmeno un figlio.
In città mi chiamavano la collezionista di mariti, una sorta di rimando al thriller scritto da quel tizio americano dove, al posto delle ossa delle vittime, nel mio caso si parlava di consorti.
Ma che ci potevo fare?
Le cose erano andate così.
La prima volta avevo appena vent’anni.
Marco faceva il fotografo, aveva già superato i trenta, e io mi ero iscritta al suo corso di fotografia.
Non erano passate nemmeno due settimane dall’inizio delle lezioni, che eravamo finiti a letto insieme.
Un classico.
Sposarci era stato un atto azzardato, ora me ne rendo conto, in fondo ci ritrovammo davanti all’altare solo tre mesi dopo il nostro primo incontro.
Troppo poco.
Soprattutto per capire fino in fondo che razza di stronzo avessi deciso di sposare.
Il fatto di essere sola al mondo, orfana sia di padre che di madre e senza fratelli né sorelle, mi esponeva a dei rischi.
Potevo sì prendere decisioni in totale autonomia senza dover rendere conto a nessuno, ma questa finta libertà aveva degli effetti collaterali piuttosto evidenti.
Prendere decisioni importanti senza avere nessuno con cui confrontarsi, esponeva a inevitabili errori di valutazione.
Alcuni addirittura grossolani.
E sposarmi con Marco era stato uno di quelli.
Lo avevo trovato a letto con svariate studentesse.
Bionde, more, persino rosse.
Insomma tutto il campionario.
Inutile continuare.
Così avevamo divorziato.
E quel giorno, dopo l’uscita dal tribunale a testa bassa per cercare di rendere meno evidenti le corna, dono del mio amato Marco, avevo giurato a me stessa che non mi sarei risposata mai più.
Probabilmente feci quel giuramento incrociando involontariamente qualche parte del corpo, visto che un paio di anni più tardi, con gli occhioni pieni di lacrime e la voce rotta dall’emozione, mi ritrovai di nuovo davanti al giuramento più solenne, questa volta di fronte a un sindaco con tanto di fascia tricolore addosso.
Cambiai arte, dalla fotografia alla pittura.
Lorenzo.
Un artista devoto al cubismo.
Nei tre anni che passammo insieme, “smontò e rimontò” il mio corpo almeno un centinaio di volte.
Lo ridusse in pezzi e lo rigenerò sulla tela in una miriade di configurazioni diverse.
Esperimenti che nemmeno il grande Picasso avrebbe avuto il coraggio di tentare.
Forse fu tutto quello spezzettamento a farci disinnamorare.
Mi ritrovai svuotata di ogni sentimento nei suoi confronti, una specie di scatola di LEGO senza più istruzioni per il montaggio.
Lo lasciai una mattina di dicembre, poco prima di Natale.
Paolo, il mio terzo marito, faceva l’assicuratore.
Un taglio netto col passato, mi ero detta.
Basta artisti, quello che ci voleva ora, era un tizio con la testa sulle spalle.
Uno che fosse capace di far quadrare i conti.
Avevo appena compiuto trent’anni, e non ero più una ragazzina alla disperata ricerca della felicità eterna.
Stavo diventando donna, anzi, lo ero ormai a tutti gli effetti, una donna.
Quando scoprii che quello stronzo, l’ennesimo, aveva stipulato una polizza milionaria sulla mia morte (ovviamente senza informarmi della cosa) e che sempre lo stesso stronzo stava anche cercando di incassarla a tutti i costi facendo in modo che la sua bella mogliettina finisse al creatore quanto prima (tentativi di avvelenamento, manomissione dei freni della macchina, ecc…), beh, come potrete immaginare mi gettai a capofitto all’interno del terzo divorzio. Con tanto di denuncia e dito medio esibito davanti al giudice.
All’alba dei trentatré anni, a un passo dal raggiungere il figlio di Dio nella sua infinita odissea sulla Terra, decisi che avrei chiuso per sempre con i matrimoni.
Avrei passato la vita cercando di divertirmi senza impelagarmi in storie troppo complicate.
Ovviamente non avevo fatto i conti con Mario.
Era l’uomo più affascinante che avessi mai incontrato.
Cinquantatré anni, scapolo, bello come Richard Gere e colto come Umberto Eco.
L’uomo perfetto.
Ci incontrammo a teatro, come sempre per puro caso.
Una prenotazione sbagliata, la classica “poltrona per due”.
Lui si offrì di tenermi sulle ginocchia per tutta la durata dello spettacolo.
Ovviamente rifiutai, ma durante quel simpatico siparietto messo in scena davanti alla bigliettaia del teatro intenta a mangiare con gli occhi il “povero” Mario, qualcosa scattò tra noi.
Io con tre divorzi alle spalle, lui single incallito.
Mi propose di sposarlo sei mesi più tardi, in gita in barca a vela.
Sì perché Mario, oltre a essere bello e colto oltremodo, era anche ricco da fare schifo.
Un figlio di papà.
Uno di quelli che avevano avuto la fortuna di nascere in una famiglia capace di costruire un impero, e che data la sua incapacità di dirigere l’azienda di famiglia, era stato messo fuori dai giochi, liquidato con una “paghetta” annuale di qualche milione di euro esentasse.
Facemmo il giro del mondo.
Un viaggio di nozze lungo sei mesi.
Avevo tutto, o almeno tutto ciò che una donna poteva desiderare di avere.
Forse addirittura troppo.
Un troppo che mi manifestò al nostro ritorno in Italia, quando nel bel mezzo di un amplesso, mi ritrovai ad avere a che fare con un amichetto di mio marito.
Il tizio uscì fuori dalla porta del bagno e mi prese da dietro.
Mentre il buon Mario si stava occupando della “questione davanti”.
Fu terribile.
Mario mi offrì una sacco di soldi, l’importante era non divulgare la notizia.
Gli risposi che non avrei detto niente a nessuno, nemmeno che “quelle cose a tre” erano governate da una malsana anarchia totale, senza alcuna regola, e dove un orifizio valeva quanto un altro.
Me ne andai senza pretendere un centesimo.
E così archiviai anche il mio quarto e (finalmente) ultimo divorzio.
Tornai nella vecchia casa di papà e mamma, disabitata fin dai tempi del mio primo matrimonio con Marco.
La trovai tutt’altro che disabitata però.
Il gatto era uno di quelli belli grossi, tigrati, color grigio chiaro.
Padrone indiscusso della villetta, si muoveva da una stanza all’altra con disinvoltura, e al mio arrivo prese a fissarmi con sospetto, come se il mutuo lo avesse pagato lui e non miei due vecchi.
Diventammo subito amici.
Amanti, oserei dire.
Vivemmo felici, senza mai prenderci troppo sul serio.
Solo in seguito, dopo diversi mesi di convivenza, scoprii il perché di quella relazione amorosa uomo/animale così naturale e soddisfacente per entrambi.
Il gatto non era affatto un gatto, ma una gatta.
Forse avevo sbagliato tutto, tutto quanto.
Ma ormai era troppo tardi per rimediare… figuriamoci per amare.